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Rifiuti: Comune non può far pagare di più i non residenti

lentepubblica.it • 8 Settembre 2017

tia rifiuti non residentiÈ illegittimo il regolamento comunale sulla Tia che fissa tariffe più alte per le utenze domestiche dei non residenti rispetto a quelle previste per i soggetti residenti. Lo ha deciso il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4223.


Il r.d. 14 settembre 1931, n. 1175 (Testo unico per la finanza locale) prevedeva, per la prima volta, la corresponsione al Comune di un “corrispettivo per il servizio di ritiro e trasporto delle immondizie domestiche”, attribuendo natura privatistica e sinallagmatica al rapporto tra utente e servizio comunale. Un decennio dopo, gli artt. 9 e 10 l. 20 marzo 1941, n. 366 (Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani) superavano l’originario impianto ed attribuivano ai Comuni la facoltà di istituire una «tassa» per la raccolta ed il trasporto delle immondizie e dei rifiuti ordinari (interni ed esterni), con soggetti passivi gli occupanti dei fabbricati posti nelle zone in cui si svolgeva (in regime di privativa comunale) il servizio di raccolta. La scelta di ricorrere ad una tassa anziché a un’imposta deriva dall’originaria “corrispettività” del rapporto.

 

A tale impianto normativo, che sarebbe stato formalmente abrogato dall’art. 56 d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22 e dall’art. 264, d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, faceva quindi seguito l’art. 21 d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 (Attuazione delle direttive CEE numero 75/442 relativa ai rifiuti, numero 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi), sostitutivo (dal 1° gennaio 1984, come poi stabilito dall’articolo 25 d.-l. 28 febbraio 1983, n. 55 – convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 1983, n. 131) dell’intera Sezione II (artt. da 268 a 278) del capo XVIII (Proventi di servizi municipalizzati) del titolo III (Entrate comunali e provinciali) del suddetto r.d. n. 1175 del 1931.

 

La nuova formulazione dell’art. 268 del Testo unico rendeva obbligatorie sia l’effettuazione dei servizi relativi allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani «interni», sia l’applicazione della «tassa» (che l’art. 20, comma 2, d.-l. 22 dicembre 1981, n. 786 – convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 786, aveva già reso obbligatoria, dal 1° gennaio 1982, per i Comuni che avevano istituito il servizio) a carico di chiunque occupasse o conducesse “locali, a qualunque uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui sono istituiti i servizi, ovvero aree adibite a campeggi, a distributori di carburante, a sala da ballo all’aperto, nonché a qualsiasi altra area scoperta ad uso privato e non costituente accessorio o pertinenza dei suddetti locali tassabili”. In particolare, la norma individuava nel «costo di erogazione del servizio» il limite massimo di gettito, “al netto delle entrate derivanti dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti sotto forma di materiali o energia”, in coerenza con la qualificazione di «tassa» (ex art. 268).

 

Mentre le ordinarie abitazioni civili dei residenti sono usualmente abitate nel corso dell’anno, le case utilizzate solo per le vacanze hanno una presenza antropica discontinua: la quale comporta, di conseguenza, una produzione media annua di rifiuti tendenzialmente inferiore rispetto alle prime. Il rammentato principio di proporzionalità, cui si deve conformare la discrezionalità tecnica amministrativa nell’individuazione delle aliquote fiscali, porta quindi a ritenere non legittimo un criterio di determinazione che risulti, all’atto pratico e a priori, più gravoso per le abitazioni dei non residenti rispetto a quelle di coloro che dimorano abitualmente nel Comune in questione.

 

 

 

Fonte: Consiglio di Stato
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