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Pubblico Impiego: regole per invalidità pensionabile

lentepubblica.it • 7 Giugno 2016

pubblico impiegoLe prestazioni previdenziali di inabilità per i lavoratori iscritti alle Casse Ex-inpdap sono, com’è noto diverse, da quelle riconosciute alla generalità dei lavoratori dipendenti e autonomi. Se questi ultimi possono chiedere l’assegno ordinario di invalidità all’insorgere di una menomazione che comporti la riduzione della capacità lavorativa a meno di un terzo, i dipendenti del pubblico impiego possono conseguire la prestazione di invalidità, di regola, solo a seguito della cd. dispensa di inabilità da parte del datore di lavoro, dispensa che viene rilasciata previo accertamento di uno stato invalidante tale da non consentire piu’ alcun proficuo lavoro nell’ambito dell’amministrazione.

 

In particolare ai sensi dell’articolo 7 della legge 379/1955 e dell’articolo 42 del Dpr 1092/1973 i dipendenti pubblici possono essere collocati a riposo a seguito di accertamento dello stato di salute disposto su richiesta del dipendente o del datore di lavoro se viene riscontrata, per causa non dipendente da causa di servizio: 1) l’inabilità assoluta e permanente a qualsiasi proficuo lavoro; 2) l’inabilità assoluta e permanente alle mansioni svolte. Si tratta di due istituti molto simili per il conseguimento dei quali non e’ necessaria una menomazione altamente invalidante (diversamente dal caso della inabilità assoluta e permanente a qualsiasi attività lavorativa), anche se l’invalidità deve essere tale, comunque, da impedire una collocazione lavorativa continuativa e remunerativa nella pubblica amministrazione.

 

I due istituti si distinguono per il fatto che il primo comporta sempre la dispensa per l’inabilità e la conseguente risoluzione del rapporto di lavoro mentre l’inabilità alla mansione è limitata al tipo di attività espletata e dà luogo al trattamento di pensione soltanto nell’ipotesi in cui il dipendente pubblico non possa essere adibito a mansioni equivalenti a quelle della propria qualifica. Sostanzialmente nella seconda ipotesi il datore di lavoro pubblico è tenuto a ricollocare il dipendente in mansioni equivalenti a quelle della propria qualifica per le quali l’inabilità non determini l’impossibilità di proseguire il rapporto di lavoro. Se non vi sono possibilità di ricollocazione in mansioni equivalenti, l’ente pubblico può proporre di ricollocare il lavoratore anche in mansioni di posizione funzionale inferiore, ma in tal caso il dipendente può rifiutarsi ed ottenere comunque la risoluzione del rapporto di lavoro e la dispensa da inabilità.

 

In entrambi i casi non si ha diritto alla prestazione se l’invalidità interviene dopo la cessazione del rapporto di lavoro e l’inabilità deve essere comprovata da visita medico-collegiale sostenuta presso la speciale commissione medica ospedaliera istituita presso l’Asl (articolo 13, della legge 274/1991). Ottenuta tale certificazione il datore di lavoro pubblico dispensa dal lavoro l’iscritto il quale, a questo punto, presenta la domanda di pensione per inabilità a proficuo lavoro all’ente di previdenza (ora Inps). Per la pensione è tuttavia richiesto un requisito contributivo pari ad almeno 15 anni (14 anni, 11 mesi e 16 giorni) di servizio utile; 20 anni (19 anni, 11 mesi e 16 giorni) di servizio utile, in caso l’interessato sia iscritto ad una delle ex casse amministrate dal tesoro come CPDEL (Cassa pensioni dipendenti enti locali), CPUG (Cassa pensioni ufficiali giudiziari e aiutanti ufficiali giudiziari), CPI (Cassa pensioni insegnanti) o CPS (Cassa pensioni Sanitari) e richieda il collocamento a riposo per inabilità assoluta e permanente alle mansioni.

 

In alternativa a questi istituti dal 1° gennaio 1996 l’art. 2, comma 12, della legge 335/1995 ha esteso la pensione di inabilità di cui alla legge 222/1984 anche al pubblico impiego. Sino a tale data la prestazione era riservata solo ai lavoratori del settore privato. Questo tipo di pensione, a differenza dei trattamenti di cui si è appena parlato, richiede una inabilità ben piu’ grave, tale da determinare una “inabilità assoluta e permanente a qualsiasi attività lavorativa”. E pertanto, è del tutto incompatibile con lo svolgimento di qualsiasi lavoro dipendente o autonomo, sia esso in Italia o all’estero.

 

Il trattamento di pensione in questione è calcolato sulla base dell’anzianità contributiva maturata, con il vantaggio però di ottenere un aumento dell’importo dell’assegno non indifferente (c.d. bonus) aggiungendo al montante individuale posseduto al momento della decorrenza della prestazione, una ulteriore quota di contribuzione riferita al periodo mancante fino al raggiungimento del sessantesimo anno di età entro i 40 anni di contributi. Questa contribuzione deve essere quantificata prendendo a base le medie contributive pensionabili possedute negli ultimi 5 anni rivalutate ai sensi dell’articolo 3 comma 5 del decreto legislativo 503/92. Il coefficiente di trasformazione, come per gli assegni di invalidità, deve essere quello relativo all’età di 57 anni per i soggetti che hanno un’età inferiore. Per ottenere la prestazione in parola è necessario, inoltre, che l’iscritto abbia maturato un minimo di cinque anni di anzianità contributiva, di cui almeno tre nell’ultimo quinquennio (cfr: Circolare Inpdap 57/1997); si ricorda inoltre che la pensione di inabilita’ può essere richiesta sia prima che dopo la cessazione del rapporto di lavoro (entro i successivi due anni).

 

Fonte: Pensioni Oggi (www.pensionioggi.it) - articolo di Bernardo Diaz
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