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L’importanza della Pubblica Amministrazione nella politica della “rivoluzione collaborativa”

lentepubblica.it • 30 Ottobre 2014

L’obiettivo e la responsabilità di un’amministrazione che non volesse affrontare le sfide che il XXI secolo le pone solo conservando, bensì innovando i propri processi produttivi, decisionali e organizzativi dovrebbero essere quelli di dare avvio a una rivoluzione istituzionale. Esattamente come sta avvenendo in campo socio-economico dove si parla di terza rivoluzione industriale e di “rivoluzione collaborativa“. Questo processo di innovazione sociale ed economica, favorito da dinamiche di innovazione tecnologica, sta inducendo milioni di persone, qualificabili come “cittadini” ai sensi dell’articolo 118.4 Cost. a collaborare, a mettersi insieme per organizzare dal basso una risposta a problemi di dimensione collettiva che normalmente spetterebbe alle istituzioni pubbliche risolvere da sole.

Lo “Stato-regia” come terza dimensione

Il ruolo dei poteri pubblici sta dunque cambiando in conseguenza di profonde innovazioni sociali, tecnologiche ed economiche. In origine era lo Stato-Leviatano (il “cane da guardia” che si limita a mantenere l’ordine pubblico per evitare che gli istinti egoistici dell’individuo lo inducano a sopraffare il più debole con la violenza). Poi è venuto lo Stato produttore e dispensatore di servizi di benessere (meglio noto come Welfare State). Infine, abbiamo avuto lo Stato regolatore che rappresenta una variante dello Stato-Leviatano e arbitra il libero gioco della concorrenza fra operatori privati impegnati a produrre anche beni e servizi di interesse generale secondo logiche legittimamente lucrative. Oggi, si aggiunge e si integra con le preesistenti una nuova dimensione istituzionale lo “Stato relazionale” o “Stato-regia”. Si tratta di una forma di Stato, inteso come complesso dei poteri pubblici, nuova che produce governance, cioè governa reti di collaborazione tra diversi soggetti tutti interessati alla realizzazione di uno scopo comune.

Il regolamento adottato dalla Giunta di Bologna – e in corso di approvazione da parte del Consiglio comunale – nasce su questa premessa concettuale e intende fornire a un’amministrazione locale gli strumenti per affrontare questo cambio di paradigma. Quello che Daniele Donati ha chiamato il “paradigma sussidiario”. L’intuizione si deve a Gregorio Arena e alla sua osservazione ed elaborazione intorno ai “cittadini attivi”. I cittadini non sono solo portatori di bisogni. Essi possono trasformarsi in portatori di soluzioni. Se adeguatamente coordinati o stimolati, i cittadini possono immettere le proprie energie, il proprio tempo, le proprie idee, risorse, in questo processo di trasformazione istituzionale. Il regolamento di Bologna appresta finalmente la cornice regolatoria idonea a favorire la nascita di un “ecosistema istituzionale collaborativo”. Ci sono i principi, le procedure, gli ambiti e gli strumenti di sostegno, monitoraggio e controllo necessari a fare della collaborazione il terzo strumento di azione e organizzazione amministrativa (accanto al potere di comando e controllo e all’ erogazione di servizi che possono liberare la persona dal bisogno). E c’è persino una scelta di politica economica centrata sull’ innovazione sociale, la creatività urbana e l’innovazione digitale.

Cambiano anche le altre dimensioni

Questa grande innovazione istituzionale oltre ad aprire una nuova frontiera per cittadini, amministratori e politici è inevitabilmente destinata a modificare il modo di intendere e gestire le preesistenti dimensioni istituzionali, quella autoritativa e quella erogativa. La novità che sta alla base del cambio di paradigma richiesto dal principio di sussidiarietà orizzontale è particolarmente rivoluzionaria nel campo dei servizi pubblici locali (energia, acqua, rifiuti). E’ particolarmente agevole dimostrarlo nel campo della produzione di energia, me è possibile utilizzarlo cercando di applicare le declinazioni della “sussidiarietà quotidiana” (che vede i “cittadini singoli” dell’articolo 118.4 Cost. impegnati a risolvere problemi di interesse generale attraverso un cambio di stile di vita nelle piccole scelte quotidiane).

Conseguentemente, in materia di energia, lo scopo non dovrà più essere quello di massimizzare la produzione dell’energia per aumentare gli utili e quindi i profitti. Si tratterà di fare esattamente il contrario. Ridurre la quantità prodotta in house e aumentare la quantità prodotta dalla comunità. Questo vuol dire prendersi cura non della produzione di energia, bensì dei beni comuni cui essa è funzionale. Non la produzione e la distribuzione di energia, dunque, ma la vivibilità urbana, l’ambiente, la coesione sociale, l’integrazione. E così via. Il core business di una municipalizzata dovrebbe diventare allora quello di garantire i servizi di rete, di interconnessione, cioè la possibilità che i diversi nodi di produzione diffusa dell’energia comunichino tra loro e che non vi siano scompensi nel sistema. In questo senso è chiaro che se il modello prende piede, anche la governance aziendale dovrà cambiare. Oggi le scelte gestionali di chi amministra una municipalizzata in forma di S.p.A. sono guidate dalla massimizzazione del valore delle azioni naturalmente connesso all’aumento della quantità di energia prodotta direttamente dalla municipalizzata. Gli amministratori rispondono ai soci se compiono scelte che vanno in una direzione opposta. Per questo occorrerà trasformare le municipalizzate in non profit utilities che abbiano ad oggetto lo scopo di interesse generale (i.e. i beni comuni di cui sopra), reinvestano gli utili nel miglioramento della qualità dei servizi funzionali alla produzione diffusa dell’energia e si finanzino sul mercato dei capitali attraverso bond solo ed esclusivamente per ammodernare, mantenere e migliorare le infrastrutture occorrenti alla interconnessione dei nodi di produzione elettrica diffusi sul territorio.

E cambierà anche la dimensione istituzionale autoritativa. Un’istituzione pubblica che decide di puntare sulla collaborazione non può pensare di essere credibile se non rende più semplici le regole attraverso le quali comanda e controlla le attività di cittadini e imprese, semplifica le procedure, rispetta i tempi e tratta cittadini e imprese come sudditi o sottoposti. Come ha avuto modo di affermare l’assessore della Giunta comunale Bolognese Luca Rizzo Nervo, il paradigma sussidiario modificherà anche l’atteggiamento di chi continuerà a gestire le forme tradizionali di amministrazione e li costringerà a investire sempre di più sulla credibilità e sull’autorevolezza dell’istituzione, più che sul principio autoritativo.

E’ chiaro che per realizzare questo cambio di paradigma occorrerà tempo, pazienza e predisposizione alla sperimentazione e quindi accettare l’error in trial. Ad esempio, in materia di servizi pubblici locali, nel medio-lungo termine occorrerà modificare la mission e la governance interna delle aziende produttrici di servizi pubblici locali, per l’amministrazione autoritativa occorrerà puntare sempre di più su trasparenza e semplicità (non solo semplificazione) di regole e procedure.

Lo scopo ultimo

Non basterebbe intercettare il cambiamento socio-economico in corso e accompagnarlo se non si lo si conciliasse con una visione politica alta del perché serva investire su questo processo di riforma e innovazione delle istituzioni. Sia in Italia che negli USA esiste evidenza scientifica dell’enorme divario nella distribuzione del reddito: in Italia dieci italiani guadagnano quanto i 3 milioni di italiani più poveri, negli USA l’1% della popolazione ha più che raddoppiato i propri redditi negli ultimi trenta anni. E’ da questa consapevolezza che è originato il movimento We are the 99%. Qualcuno lo definisce il “quinto stato”, altri la “moltitudine”. Insomma è la “maggioranza oppressa”, la “massa dei diseguali”. Quelli che fanno numero per le riforme ispirate all’austerity, ma che poco riescono a incidere sulle decisioni reali attraverso i meccanismi della democrazia rappresentativa. Sicuramente non si tratta più di una minoranza oppressa come era il proletariato del ’900 ed altrettanto indubitabilmente si tratta in alcuni casi di disuguaglianze inaccettabili (perché non trovano giustificazione in criteri di merito) che perdurano da tempo, ben prima che la crisi economica e finanziaria si abbattesse sulle economie occidentali.

Secondo Amartya Sen una condizione di non benessere e dunque di “disagio” si determina ogniqualvolta sia negata alla persona la libertà di svilupparsi pienamente, cioè di affermare la propria dignità di individuo unico e irripetibile e di valorizzare i propri talenti. E’ evidente il richiamo agli articoli 3, comma 2, 4, comma 2, e 36 della Costituzione. Questa impostazione è coerente con il passaggio da una concezione redistributiva a una concezione procedurale del principio di eguaglianza e, dunque, con la natura di canone che impone alla Repubblica di agire in misura prevalente nella direzione di promuovere attraverso politiche pubbliche ad hoc le condizioni che rendono effettivi i diritti dei cittadini, in particolare quelli sociali, anziché di mero vincolo a garantire con legge diritti a prestazioni pubbliche.

Predisporre le condizioni affinché i cittadini, soprattutto quelli di più giovane età, possano liberamente e individualmente scegliere di assumersi la responsabilità di curare, proteggere e conservare – per tutta la comunità e per le generazioni future – i beni comuni può contribuire a realizzare quella “fioritura della persona” che per Sen costituisce il vero fulcro della “felicità”, l’unico valore da misurare per saggiare il reale benessere di una comunità. La giustizia nella prospettiva di Sen dipende non dal trattamento riservato all’individuo dalle istituzioni o dal potere politico, bensì soprattutto dai «legami etici e culturali che uniscono l’individuo alla società e che creano quella che si chiama atmosfera di libertà, l’ambiente complessivo nel quale le scelte individuali acquistano significato».

La sussidiarietà come libertà di altro tipo

Lo sviluppo delle capacità individuali diviene più importante delle regole, procedure e istituzioni volte a garantire un trattamento equo degli individui. Per aversi realmente giustizia deve garantirsi questa “atmosfera di libertà” e quindi prestare attenzione a che le condizioni sociali e culturali arricchiscano e non deprimano le capacità occorrenti per perseguire le scelte individuali funzionali ai progetti personali e alle aspettative dell’individuo. Solo così egli potrà essere consapevole di un suo eventuale malessere e di ciò che è necessario per superarlo. In questa ottica la povertà non viene a dipendere esclusivamente dal reddito, ma soprattutto dalle risorse effettive, materiali e immateriali, di cui l’individuo ha bisogno nella propria società per raggiungere attraverso la propria capacità d’azione il vero benessere come descritto sopra. Il governo e la società civile devono dunque incoraggiare la cultura della individualità attraverso politiche che mirino, con incentivi o interventi, a correggere le diseguaglianze materiali e sociali che il mercato produce (6). Diviene perciò fondamentale verificare l’esistenza di una effettiva capacità degli individui di operare con autonoma responsabilità nella società in cui vivono. E quindi per assecondare il pieno sviluppo del welfare sociale bisogna cominciare a ragionare nel senso che «la democrazia politica e i diritti civili tendono a far crescere libertà di altro tipo […] oltre quella economica proprio perché danno voce […] a chi è in condizione di miseria o è più vulnerabile» .

Tra le “libertà di altro tipo” deve, allora, essere annoverata anche quella che mette i cittadini in condizione di condividere e cementare legami nella cura civica di beni comuni, cioè di quei beni che se impoveriti impoveriscono tutti e se arricchiti arricchiscono tutti. Ma nella consapevolezza che a subire in maniera più immediata gli effetti del dissipamento dei beni comuni sono proprio le fasce popolari più svantaggiate. Perché i beni comuni e i legami di cooperazione sociale che attorno ad essi si cementano, rappresentano per i più deboli e i più poveri una imprescindibile base di sostentamento e una loro eventuale distruzione o degrado può segnare il passaggio da una situazione di povertà a condizioni di non sopravvivenza.

Ma che libertà è?

E’ una libertà politica. E’ una nuova forma di partecipazione alla vita pubblica che non si esplica più solo e soltanto nella definizione mediata di ciò che è di interesse generale e quindi nella decisione di apprestare un’azione collettiva, fino ad oggi declinata solo nel senso di azione pubblica, ma soprattutto nella cura concreta e quotidiana da parte della collettività dei bisogni della collettività stessa. In definitiva, la partecipazione politica non viene più intesa solo come conferimento di una delega a un proprio rappresentante nell’ambito dei circuiti della democrazia rappresentativa, bensì come esercizio diretto di quel potere sovrano del popolo che deve esercitarsi nelle “forme della Costituzione” (art. 1). Una nuova forma di esercizio di quel potere, un diritto politico di nuova generazione. Come per l’amministrazione tradizionale, questo cambio di paradigma determinerà la necessità di ripensare anche il ruolo e la cultura della politica tradizionale. Non si tratterà più solo di raccogliere consenso e imprimere un indirizzo attraverso i canali dell’amministrazione autoritativa o erogativa. Molto probabilmente la politica di terza generazione richiederà persone capaci di lavorare insieme con l’amministrazione per sviluppare, organizzare e gestire le risorse presenti nella comunità al fine di convogliarle verso progetti di amministrazione condivisa dei beni comuni.

Il regolamento di Bologna non è allora solo un nuovo regolamento amministrativo. Esso rappresenta un “regolamento nuovo” del patto sociale e del patto di collaborazione che lega la comunità alle istituzioni. E compito di ogni amministrazione dovrebbe essere quello di investire come ha fatto Bologna, grazie al supporto della Fondazione del Monte, sull’ approfondimento delle condizioni giuridiche ed economiche di fattibilità per lanciare altre sperimentazioni, sperimentazioni nuove sul campo, in ambiti geografici diversi per identità, tradizioni, culture, caratteristiche materiali e immateriali e provare a individuare problematicità e potenzialità di una o più delle soluzioni di governance apprestate nel regolamento bolognese per perfezionarlo, anziché continuare a investire sulla logica del government per la soluzione dei problemi di dimensione collettiva.

 

 

FONTE: Associazione dei Comuni Virtuosi

AUTORE: Christian Iaione

 

 

Democrazia-e-Partecipazione

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