La rivalutazione dei beni appartenenti a una categoria omogenea deve riguardare tutti i beni e non solo alcuni di essi, derivando dalla violazione di tale obbligo (e cioè dall’esclusione di alcuni beni dalla rivalutazione) il disconoscimento, ai fini fiscali, della rivalutazione per tutti gli altri beni della stessa categoria. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 21349 del 21 ottobre 2015.
I fatti
Con avviso di accertamento emesso per Irpeg e Irap 2001 nei confronti di una Spa, l’ufficio aveva ritenuto che la contribuente, omettendo la rivalutazione di alcuni macchinari, avesse violato gli articoli 10 e seguenti della legge 342/2000.
Di conseguenza, aveva proceduto al disconoscimento della rivalutazione di tutti i beni che risultavano appartenere alle stesse categorie di quelli non rivalutati e al conseguente recupero a tassazione dei maggiori ammortamenti.
L’avviso è stato ritenuto illegittimo dai giudici di primo grado e il successivo appello dell’ufficio è stato rigettato dalla Commissione regionale. Quest’ultima ha ritenuto che la mancata rivalutazione dei cespiti da parte della società fosse suffragata da motivazioni legittime e sufficienti.
L’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione, denunciando violazione degli articoli 10 e seguenti della legge 342/2000 e ritenendo che la Commissione di secondo grado aveva errato ad annullare l’avviso di accertamento che disconosceva la rivalutazione effettuata, all’interno di una medesima categoria di beni, solo con riferimento ad alcuni di essi e non a tutti quelli appartenenti a tale categoria.
La Corte ha ritenuto fondato il motivo di ricorso e, condividendo la tesi dell’Agenzia, ha precisato che “la rivalutazione dei beni appartenenti alla medesima ‘categoria omogenea’ deve riguardare tutti i beni di quella categoria, con il conseguente disconoscimento degli effetti fiscali della rivalutazione per tutti gli altri beni della stessa categoria in caso di violazione di tale obbligo” (cfr Cassazione, 21349/2015).
Osservazioni
Ai giudici di piazza Cavour è stato chiesto se, a mente degli articoli 10 e seguenti della legge 342/2000 (“collegato fiscale”), era consentita una rivalutazione solo di alcuni beni d’impresa tra quelli facenti parte di una medesima categoria omogenea ovvero se la rivalutazione doveva riguardare piuttosto tutti i beni appartenenti alla stessa categoria.
La Corte ha fornito una lettura sistematica delle disposizioni. In particolare:
In particolare, i giudici di piazza Cavour hanno osservato che la ratio della rivalutazione integrale dei beni secondo le categorie omogenee emergenti in bilancio deve essere rinvenuta prima di tutto nella volontà del legislatore di adeguare la rappresentazione contabile delle immobilizzazioni ai valori effettivi, in vista dell’introduzione dell’euro quale moneta unica europea. In mancanza, infatti, i beni aziendali delle società italiane sarebbero stati sottovalutati rispetto a quelli delle concorrenti europee, con ripercussioni negative sul risultato di esercizio e sulla competitività economica.
I giudici di legittimità hanno ritenuto che ulteriore finalità della legge, poi, è quella di garantire che non venga alterata la capacità di rappresentare fedelmente la reale situazione patrimoniale e finanziaria dell’impresa. La scelta volontaria dell’imprenditore di rivalutare tutti i beni appartenenti alla stessa categoria omogenea, infatti, soddisfa la necessità di garantire la veridicità e la correttezza di tale situazione. Ma senza possibilità di giustificare la mancata rivalutazione del bene solo in sede di controllo fiscale e, tra l’altro, con mere dichiarazioni. Non basta, infatti, affermare che il bene è obsoleto fisicamente ed economicamente, che viene tenuto in azienda “di riserva” solo per far fronte a eventuali emergenze e che è utilizzato saltuariamente nella produzione.
Deve osservarsi, tuttavia, che la Corte, pur aderendo alla posizione assunta dall’Agenzia nei documenti di prassi (cfr circolare 57/2001, paragrafo 1.6), nulla ha statuito espressamente con riferimento al profilo sanzionatorio. Probabilmente perché, oltre al disconoscimento degli effetti fiscali e al recupero a tassazione dei maggiori ammortamenti effettuati (o delle minori plusvalenze o maggiori minusvalenze dichiarate), l’applicazione delle ordinarie sanzioni previste per infedele dichiarazione costituisce ulteriore conseguenza di un’incompleta rivalutazione.
In conclusione, nella fattispecie al suo vaglio, la Cassazione non ha ritenuto necessari ulteriori accertamenti di fatto. Ha deciso la causa nel merito, rigettando il ricorso introduttivo della contribuente, e ha compensato le spese dell’intero giudizio per la novità della questione.
Fonte: Fisco Oggi, Rivista Telematica dell'Agenzia delle Entrate - articolo di Romina Morrone