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Studi di Settore: serve stoppare gli accertamenti fiscali?

lentepubblica.it • 16 Maggio 2016

studi di settore 2Sono poco più di 3,7 milioni le partite Iva sottoposte agli studi di settore e oltre il 75 per cento (2,8 milioni di attività) è congruo, ovvero rispetta le richieste avanzate dall’Amministrazione finanziaria in materia di ricavi. Questi contribuenti, tuttavia, rimangono ancora nel mirino del fisco visto che ogni anno rischiano di subire un accertamento fiscale, sebbene per gli studi di settore siano dei soggetti fedeli al fisco. Nel 2014, infatti, sono stati 160.000 gli accertamenti in materia di Iva, Irap e imposte dirette che hanno interessato le imprese potenzialmente soggette agli studi di settore.

 

“Questa attività accertativa deve terminare – sottolinea il coordinatore dell’Ufficio studi ella CGIA Paolo Zabeo – e bisogna limitare al massimo il numero di controversie con l’Amministrazione finanziaria per togliere quell’ansia da fisco che, purtroppo, continua a investire molti piccoli imprenditori. E’ vero che dopo le sentenze della Cassazione del 2009 gli studi sono stati depotenziati per quanto concerne la valenza in ambito accertativo, ma ciò non basta. E’ necessario introdurre anche questo regime premiale a beneficio di chi è in regola con le richieste del fisco, così come era stato annunciato verso la seconda metà degli anni ’90 in sede di presentazione di questo strumento”.

 

Negli anni gli studi di settore hanno garantito un grosso apporto di gettito alle casse del Stato. Dalla loro introduzione (1998) al 2014 (ultimi dati disponibili), a fronte di 46,8 miliardi di euro di maggiori ricavi ottenuti attraverso l’adeguamento spontaneo in sede di dichiarazione dei redditi, questi si sono tradotti, secondo una stima elaborata dall’Ufficio studi della CGIA, in 18,6 miliardi di euro di tasse in più versate all’erario. “Certo – conclude Zabeo – è difficile stabilire quanti di questi soldi siano il frutto di una graduale emersione della base imponibile e quanti, invece, siano riconducibili a tasse aggiuntive che i contribuenti hanno pagato, al fine di evitare problemi con il fisco, perché l’asticella dei ricavi imposta dagli studi di settore era troppo elevata.

 

Molto probabilmente la verità sta nel mezzo, ma ora non possiamo buttare via il bambino con l’acqua sporca. Dobbiamo migliorare la funzionalità di questo strumento, rendendolo meno aggressivo”. Gli studi di settore, prosegue la CGIA, sono importanti perché esprimono un giudizio di massa sulla fedeltà fiscale delle piccole e micro imprese che, come dimostrano i dati statistici, presentano un livello di congruità, pari al 75%, molto elevato. “Mi permetto di ricordare – sottolinea il segretario della CGIA Renato Mason – che gli studi di settore erano nati per conferire certezza fiscale al contribuente, per rendere più trasparente il rapporto tra quest’ultimo e il fisco e per ridurre il peso delle tasse al mondo delle piccole e micro imprese. Purtroppo, buona parte di questi obbiettivi sono stati disattesi, anche se va riconosciuto il grande lavoro svolto in questi ultimi anni dall’Agenzia delle Entrate che ha introdotto i correttivi anti crisi, ha previsto un regime premiale – ancorchè insufficiente – per chi si adegua e ha migliorato la rappresentatività di questo strumento. Nonostante ciò, il lavoro da fare è ancora molto. Oltre a introdurre una forma di immunità dagli accertamenti fiscali per quei contribuenti che sono congrui è necessario rafforzare i criteri di elasticità degli studi, soprattutto nei primi anni di vita delle imprese, sia per evitare rischi di un impatto troppo brusco sulle start up, sia per consentire una graduale applicazione degli stessi, migliorandone così la taratura”.

Fonte: CGIA Mestre
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