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Uccidere la moglie o la convivente: cosa è più grave?

lentepubblica.it • 12 Gennaio 2017

omicidioL’omicidio della compagna convivente è meno grave, per la legge italiana, rispetto a quello della moglie. Possibile?

 


Sì, almeno secondo la Cassazione che, in questo, è rimasta all’epoca in cui le «coppie di fatto» venivano discriminate rispetto a quelle sposate. Così, secondo una sentenza pubblicata ieri, uccidere la convivente è meno grave che uccidere la moglie.

 

La Corte di appello, presupposta tale ricostruzione dei fatti non contestata dall’appellante, illustrava le ragioni di doglianza della difesa sviluppate con i sei motivi di appello, e, nel rimarcarne la infondatezza, rappresentava, in particolare, che: – quanto alla qualificazione del fatto, ostavano alla reclamata configurabilità del meno grave reato di lesioni volontarie, le potenzialità lesive dell’arma, le risultanze del sequestro, le certificazioni mediche e le dichiarazioni assunte, poiché era risultato che l’appellante aveva utilizzato nell’occasione un’arma bianca con temibili caratteristiche offensive, rinvenuta nel lavandino della cucina con tracce ematiche, e il cuscino, indicato dalla persona offesa come suo mezzo di difesa dai colpi, presentava tracce di sangue e un taglio “di ragguardevoli dimensioni“, che confermava il racconto della stessa e rendeva palese che era stato il cuscino a impedire l’evento letale.

 

Si rileva in diritto che, per aversi il reato tentato, l’art. 56 cod. pen. richiede la commissione di atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un reato. È, quindi, elemento strutturale oggettivo del tentativo, insieme alla direzione non equivoca degli atti, l’idoneità degli stessi, dovendosi intendere per tali quelli dotati di una effettiva e concreta potenzialità lesiva per il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice, alla luce di una valutazione prognostica compiuta ex post (e quindi postuma), con riferimento alla situazione così come presentatasi al colpevole al momento dell’azione in base alle condizioni umanamente prevedibili del caso particolare, che non può essere condizionata dagli effetti realmente raggiunti (tra le altre, Sez. 1, n. 3185 del 10/02/2000, Stabile, Rv. 215511), e, quindi, tenendosi conto con giudizio ex ante, nella prospettiva del bene protetto, delle circostanze in cui ha operato l’agente e delle modalità dell’azione (tra le altre, Sez. 6, n. 27323 del 20/05/2008, P., Rv. 240736).

 

Questa Corte ha anche ripetutamente affermato che, al fine della qualificazione del fatto quale lesione personale o quale tentato omicidio, si deve avere riguardo al diverso atteggiamento psicologico dell’agente e alla diversa potenzialità dell’azione lesiva. Se nel primo reato la carica offensiva dell’azione si esaurisce nell’evento prodotto, nel secondo vi è un quid pluris che tende ed è idoneo a causare un evento più grave di quello realizzato in danno dello stesso bene giuridico o di uno superiore, riguardante lo stesso soggetto passivo, che non si realizza per ragioni estranee alla volontà dell’agente.

 

Con riferimento particolare all’elemento psicologico del dolo, riguardo al reato di tentato omicidio, è costante l’orientamento alla cui stregua la figura di reato prevista dall’art. 56 cod. pen., che ha come suo presupposto il compimento di atti finalizzati (“diretti in modo non equivoco”) alla commissione di un delitto, non ricomprende quelle condotte rispetto alle quali un evento delittuoso si prospetta come accadimento possibile o probabile non preso in diretta considerazione dall’agente, che accetta il rischio del suo verificarsi (c.d. dolo eventuale), ricomprendendo invece gli atti rispetto ai quali l’evento specificamente richiesto per la realizzazione della fattispecie delittuosa di riferimento si pone come inequivoco epilogo della direzione della condotta, accettato dall’agente che prevede e vuole, con scelta sostanzialmente equipollente, l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (c.d. dolo diretto alternativo), o specificamente voluto come mezzo necessario per raggiungere uno scopo finale o perseguito come scopo finale (c.d. dolo diretto intenzionale).

 

In allegato la Sentenza.

 

 

Fonte: Cassazione
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