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Omessa Dichiarazione IVA: controlli incrociati sono validi

lentepubblica.it • 13 Giugno 2016

saldo iva 2015Respinto il ricorso dell’imputato che riteneva illegittima la sentenza dei giudici d’appello basata esclusivamente sulle presunzioni derivanti dalle movimentazioni bancarie.

 

Il reato di omessa dichiarazione può dirsi provato nel suo presupposto oggettivo nel rinvenimento di fatture attive emesse dall’imputato nei confronti di alcuni clienti a fronte delle quali risultino, a seguito di controlli incrociati, ingenti pagamenti. È questo il principio espresso dalla sentenza n. 22253 del 27 maggio 2016, con cui la Cassazione ha rigettato il ricorso di un imputato, confermandone la condanna per il reato di omessa presentazione della dichiarazione di cui all’articolo 5 del Dlgs 74/2000.

 

Il caso

 

Con sentenza del 2015, la Corte d’appello di Campobasso, in parziale riforma della pronuncia di primo grado in virtù del riconoscimento delle attenuanti generiche, condannava il titolare di una ditta individuale per il reato di omessa presentazione della dichiarazione. Con il successivo ricorso per cassazione l’imputato denunciava, tra l’altro, violazione di legge, in quanto i giudici di appello avevano fondato la condanna basandosi sulle presunzioni derivanti dalle movimentazioni bancarie, ai sensi dell’articolo 32 del Dpr 600/1973, senza operare alcuna autonoma valutazione in ordine alla determinazione dell’imposta evasa, in violazione del principio del “doppio binario” tra processo penale e procedimento tributario. Inoltre, la condanna era stata motivata unicamente con riferimento all’accertamento induttivo (da indagini finanziarie), in contrasto con l’assunto per cui le presunzioni non possono ex se fondare un giudizio di responsabilità.

 

La sentenza della Cassazione

 

La Cassazione, con la pronuncia in esame, ha ritenuto infondato il ricorso, condannando l’imputato alla refusione delle spese processuali. I giudici di legittimità hanno rigettato l’assunto di parte in merito all’utilizzo di presunzioni e alla mancanza di un iter argomentativo autonomo rispetto al procedimento tributario, precisando che “è ben vero che la prova (dell’imposta evasa, quale elemento costitutivo della fattispecie delittuosa) è stata acquisita anche mediante indagini bancarie, ma è altrettanto vero che, nel caso in esame, non può parlarsi di accertamento basato esclusivamente su metodo induttivo attraverso la presunzione di cui all’art. 32, d.P.R. n. 600 del 1973… atteso che i ricavi risultano documentati dalle fatture attive emesse verso terzi dalla ditta verificata e che, sulla base di tali dati documentali, sono poi stati eseguiti i controlli incrociati della GDF da cui sono risultati i pagamenti relativi ai corrispettivi fatturati per centinaia di migliaia di euro“. Inoltre, come da giurisprudenza ormai consolidata, ai fini della determinazione dell’imposta evasa, i verificatori avevano tenuto conto della “contrapposizione tra ricavi e costi d’esercizio fiscalmente detraibili, in una prospettiva di prevalenza del dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento tributario” (cfr, ex multis, Cassazione 38684/2014).

 

Ulteriori osservazioni

 

In tema di reati tributari, è ormai pacifico che i giudici possano legittimamente utilizzare i verbali di constatazione della Guardia di finanza, nonché ricorrere all’accertamento induttivo di cui all’articolo 39 del Dpr 600/1973 ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa. Il principio del doppio binario, ovvero dell’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario, non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi anche di presunzioni tratte dall’ambito tributario, con l’unico limite rappresentato dal fatto che tali elementi vengano assunti “non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori” (Cassazione 9043/2013). Ciò vale a maggior ragione in sede cautelare, in cui ci si limita a valutare “solo” il fumus commissi delicti ovvero la non manifesta infondatezza del reato; in tal senso, è stata ritenuta sufficiente la ricostruzione dell’imposta evasa esclusivamente sulla base dello studio di settore, rinviandosi alla fase di merito per il reperimento di ulteriori elementi indiziari in grado di confermare o smentire la pretesa dell’Agenzia delle Entrate (Cassazione, sentenza 40992/2013).

 

Con la sentenza 9043/2013, i giudici di legittimità hanno chiarito che, con riferimento al delitto di dichiarazione infedele, per imposta evasa deve intendersi “l’intero tributo effettivamente dovuto, che va correlato al risultato economico conseguito e deve essere determinato – sulla base delle risultanze probatorie acquisite nel processo penale – dalla contrapposizione dei ricavi e dei costi d’esercizio fiscalmente detraibili…“. È proprio al giudice penale che spetta la verifica in concreto dell’avvenuto superamento della soglia di punibilità e, quindi, la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa “attraverso una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria” (Cassazione, sentenze 34871/2010 e 21213/2008).

 

Tuttavia, il giudice penale può anche utilizzare i verbali di constatazione redatti dalla Guardia di finanza ai fini della determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, nonché ricorrere all’accertamento induttivo. Il ricorso a metodi induttivi di ricostruzione del reddito è ammesso ogni qual volta le scritture contabili imposte dalla legge non siano state tenute o siano state irregolarmente tenute dal contribuente. Infatti, a fronte di una contabilità irregolare, il reddito evaso non può essere ricavato in via meramente aritmetica, mentre gli indici presuntivi tributari permettono di risalire, attraverso un ragionamento induttivo, dal particolare accertato al complessivo imponibile desunto da tali elementi di presunzione (Cassazione 28053/2011).

 

È proprio alla luce di tali considerazioni che la Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi, soprattutto nella fase cautelare, degli stessi elementi che determinano presunzioni tributarie, ma solo a condizione (questa precisazione vale anche ai fini del giudizio di merito) “che gli stessi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori“.

 

Nel caso di specie, questo principio è stato sicuramente rispettato, in quanto le valutazioni operate dalla Corte d’appello si erano basate su una tipologia di controllo di tipo analitico ovvero sulle fatture attive emesse dalla ditta verificata, a fronte delle quali, attraverso controlli incrociati, risultavano pagamenti di somme ingenti. In altri termini, la ricostruzione analitica dell’imposta evasa anche attraverso la considerazione dei costi deducibili rappresenta il frutto di una valutazione del giudice penale autonoma rispetto al giudizio tributario, così come richiesto dalla giurisprudenza in ossequio al principio del “doppio binario”.

Fonte: Fisco Oggi, Rivista Telematica dell'Agenzia delle Entrate - articolo di Francesco Brandi
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