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Processo tributario: legittimo accertamento relativo alla confessione stragiudiziale

lentepubblica.it • 5 Novembre 2014

È legittimo l’accertamento basato su ciò che afferma una persona interna e, pertanto, non estranea alle operazioni realizzate dalla società sottoposta a verifica fiscale.

Con ordinanza n. 22616 del 24 ottobre 2014, la Corte di cassazione ha stabilito che le dichiarazioni rese dall’amministratore della società nel corso della verifica non hanno contenuto testimoniale, ma sono qualificabili come confessione stragiudiziale, in virtù del nesso d’immedesimazione organica che lega il rappresentante legale con la società rappresentata.
Le dichiarazioni in questione, pertanto, possono legittimamente fondare l’accertamento del maggior reddito imponibile.

I fatti di causa
La vicenda riguarda quattro avvisi di accertamento, con i quali l’Agenzia delle Entrate rettificava, ai fini Iva e Irap, i ricavi di una società di persone avvalendosi del metodo analitico-induttivo e, ai fini Irpef, i redditi dei tre soci.

La società e i soci impugnavano gli avvisi con autonomi ricorsi, accolti dalla locale Commissione tributaria provinciale.

La Ctr respingeva gli appelli dell’ufficio, facendo leva, quanto alle posizioni dei soci, sull’esito del giudizio concernente la società. In particolare, i giudici di secondo grado reputavano irrilevanti, per la prova presuntiva richiesta dall’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, le dichiarazioni del legale rappresentante della società “poiché tale ammissione, o testimonianza a verbale con natura confessoria, a parte la sua genericità che la rende irrilevante, non può costituire prova del processo tributario, in quanto l’art.7 del d.lgs. n.546 ne esclude l’ammissibilità per cui la testimonianza non può essere valutata, a maggior ragione, neppure se assunta in modo scritto in occasione di un processo verbale di constatazione”.

Con i successivi ricorsi in Cassazione, poi riuniti, l’Agenzia delle Entrate denunciava, ai sensi dell’exarticolo 360, comma 1, n. 3, del codice di procedura penale, la violazione o falsa applicazione dell’articolo 39 del Dpr 600/1973 e dell’articolo 54 del Dpr 633/1972, nonché degli articoli 2697, 2727 e 2729 cc, per avere la Commissione tributaria regionale reputato che non vi fossero i presupposti per il ricorso al metodo di accertamento analitico-induttivo.

La pronuncia della Cassazione
La Corte suprema ha accolto i ricorsi dell’ufficio, cassando con rinvio le sentenze impugnate.
I giudici, dopo aver chiarito che l’accertamento analitico-induttivo presuppone scritture regolarmente tenute ma contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, hanno richiamato il consolidato orientamento di legittimità (Cassazione, pronunce nn. 27833/2013, 25946/2011, 13482/2008 e 28316/2005), secondo cui “le dichiarazioni rese dall’amministratore legale rappresentante della società nel corso della verifica sono qualificabili come confessione stragiudiziale, in virtù del nesso d’immedesimazione organica tra il primo e la seconda, che non è reciso neanche quando l’atto sia stato compiuto dall’amministratore con dolo o abuso di potere e non rientri nella sua competenza”.

Pertanto, le dichiarazioni rese in sede di verifica dall’amministratore di una società non assumono contenuto testimoniale, in quanto il rapporto di immedesimazione organica, che lega il rappresentante legale alla società rappresentata, esclude che il primo possa essere qualificato come testimone, in riferimento ad attività poste in essere dalla seconda.
I giudici di legittimità, reputando dette dichiarazioni al pari di una confessione stragiudiziale, le hanno considerate pienamente utilizzabili nell’ambito del processo tributario.
Ne è conseguito il rinvio ad altra sezione della Ctr per una nuova valutazione.

Osservazioni
La giurisprudenza di legittimità tende, oramai pacificamente, a qualificare la dichiarazione resa dal legale rappresentante di una società in sede di verifica al pari di una confessione stragiudiziale, ovvero di una dichiarazione che la parte fa della verità di fatti a essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte. Infatti, l’immedesimazione organica che lega il rappresentante alla società rappresentata fa ritenere verosimile la sua non estraneità alle operazioni poste in essere dalla società in evasione d’imposta.
In quanto confessione, non rientra tra i mezzi probatori, quali il giuramento e la testimonianza, la cui ammissione è esclusa dall’articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/1992, e costituisce prova diretta e non indiziaria del maggior imponibile accertato nei confronti della società rappresentata, non bisognosa, come tale, di ulteriori riscontri (cfr Cassazione, pronunce nn. 12271/2007 e 28316/2005).

Diversamente, con riferimento alle dichiarazioni rese da terzi agli organi di verifica, la giurisprudenza della Corte suprema ne riconosce pacificamente la valenza non direttamente probatoria ma indiziaria, da corroborare con ulteriori elementi.
Il giudice tributario è chiamato a valutare detti elementi di prova e “nel disattenderne l’eventuale contenuto ha l’obbligo di motivarne gli aspetti ritenuti non veridici” (cfr Cassazione, 25104/2008).

La disposizione contenuta nell’articolo 7, comma 4, infatti, vale esclusivamente nell’ipotesi di diretta assunzione, da parte del giudice tributario, nel contraddittorio delle parti, della narrazione dei fatti della controversia compiuta da un terzo, limitando così solo i poteri delle commissioni tributarie e non anche quelli degli organi amministrativi di verifica (cfr Cassazione, 19965/2014).

 

 

FONTE: Fisco Oggi – Rivista Telematica dell’Agenzia delle Entrate

AUTORE: Annalisa Lo Parco

 

processo 3

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