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Tasse sullo sfitto involontario, una barbarie senza confronti

lentepubblica.it • 28 Gennaio 2014

La legge di stabilità (in vigore dall’1 gennaio scorso, ma ad effetto retroattivo dall’1.1.’13) prevede che “il reddito degli immobili ad uso abitativo non locati situati nello stesso comune nel quale si trova l’immobile adibito ad abitazione principale, assoggettati all’imposta municipale propria, concorre alla formazione della base imponibile dell’imposta sul reddito delle persone fisiche e delle relative addizionali nella misura del cinquanta per cento”.
Si tratta del ripristino di un’imposta che era stata abolita nel 2011 (Governo Berlusconi), con lo stesso provvedimento col quale si istituì la cedolare secca. Il ripristino avviene alle condizioni specificate nella norma, che esclude con chiarezza le case di villeggiatura dall’imposizione ripristinata. Un tentativo di ripristino dell’imposta era stato fatto ad agosto ma con una dizione che includeva anche le case di villeggiatura, ed allora il tentativo era stato respinto.

La reintroduzione dell’imposizione sulle case non locate – “suggerita” dalla Confindustria in audizione in Parlamento – nasce anzitutto, com’è facile capire, dall’esigenza di “fare cassa” in tutti i modi, e comunque (frutterà infatti allo Stato, nel 2014, più di 500 milioni di euro), con la consueta, spiccata preferenza della nostra burocrazia e di certa classe politica a gravare sempre sugli immobili, nell’intendimento di colpire (con facilità, perché sempre visibile) una ricchezza che peraltro non è più tale sia per l’abbattimento dei valori che si è avuto sia – soprattutto – perché si ha ricchezza solo quando una proprietà può essere realizzata sul mercato, cosa che, per la quasi generalità degli immobili proprio non si verifica oggigiorno in Italia. Imposta per “fare cassa”, ancora, a carico di una ricchezza presentata come statica dalla stampa oligopolista che propaganda – su consiglio, anche,
dell’Europa (della finanza) – la detassazione di “imprese e lavoro” (come se ogni investimento non producesse lavoro), ignara – o finta ignara – che la ricchezza immobiliare ha, comunque, anche una componente dinamica, che è peraltro stata del tutto azzerata da uno smodato fiscalismo, quando avrebbe invece dovuto essere valorizzata e potenziata.

La reintroduzione è poi anche stata spiegata con la necessità della lotta all’evasione, presumendosi che gli immobili non locati siano in realtà locati irregolarmente. Ed anche qui, ed ancora una volta, si è preferito – ovviamente – pensare ad incassare di più, piuttosto che a disporre facili ispezioni per controllare se gli immobili che risultano non locati non siano davvero da alcuno occupati. Per queste “ragioni” (oltre che, nei casi più estremisti, per favorire una redistribuzione – socialista – del patrimonio) si è dunque scelto di reintrodurre un’imposta di particolare iniquità. Gli immobili in questione sono infatti generalmente quelli che i locatori (per la stragrande maggioranza piccoli proprietari, come
noto) intendono concedere in locazione, senza peraltro trovare – soprattutto in questo periodo di crisi – inquilini disponibili. In molti casi si tratta anche di immobili che i proprietari utilizzano direttamente come locali di deposito o che non possono locare – per possibili esigenze personali o di figli – per le lunghe durate contrattuali tuttora previste da una normativa d’altri tempi e che – prigioniera di categorie le cui organizzazioni chiedono le liberalizzazioni solo per gli altri – tiene anchilosato il mercato
nell’uso abitativo per non parlare dell’uso diverso. In altri casi, poi, gli immobili non vengono locati perché bisognosi di ristrutturazioni, per effettuare le quali i proprietari non dispongono dei mezzi necessari, data la mancanza totale, o quasi, di redditività della locazione nei tempi attuali (stretta com’è fra le alte tasse, la conseguente esigenza di non praticare canoni al di sotto dei livelli delle stesse e la non possibilità di rinvenire inquilini con idonee capacità reddituali, dato il periodo di crisi). Su tali immobili
improduttivi di reddito – giova ricordarlo – i locatori sono comunque costretti, oltre che a pagare l’Imu (solitamente con aliquota massima), a sostenere tutti gli oneri propri di un bene come questo: contributi condominiali, spese di manutenzione, ecc.

E’ su questi locatori che si abbatterà, ancora, una specifica tassa in più (e questo, a parte la vecchia IMU e la nuova Tasi (o IMU bis, meglio): tributi ai quali – in virtù di altra legge – si aggiungeranno le spese dovute alla presenza negli immobili di morosi “incolpevoli” per lunghi periodi, essendosi voluta aggiungere alla, già lunga, graduazione dell’Autorità giudiziaria e degli Ufficiali giudiziari anche una terza, nuova graduazione, affidata ai Prefetti e cioè a rappresentanti del Governo e dallo stesso nominati con assoluta discrezionalità.
Insomma, alla mancanza di reddito (e alla presenza solo di spese, anche – come visto – determinate dal Governo) si aggiunge un’imposta non si sa su che cosa se non sulla sfortuna di non riuscire – molte volte per colpa della situazione urbana creata dalla mano pubblica – a trovare un inquilino. Una barbarie senza confronti, soprattutto considerando che i locatori non possono neanche pattuire un canone inferiore al 10% del valore catastale (per ipotesi, pur di trovare un inquilino) per effetto di una norma che lo stesso Stato che li perseguita ha posto (art. 41-ter, dpr n. 600/‘73), e ciò se non esponendosi alle ispezioni dell’Amministrazione finanziaria.

FONTE: Confedilizia

AUTORE: Corrado Sforza Fogliani, presidente Confedilizia

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