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Diritto all’oblio: la memoria digitale può essere nociva?

lentepubblica.it • 1 Agosto 2014

Il concetto di memoria per l’essere umano può essere emozionale ed evocativo. La memoria non è pesata. La memoria può essere puntuale e relativa ad un fatto, o ad un dato oppure semplicemente non collegata. E’ un processo di immagazzinamento naturale che avviene senza un preciso ordine come lo è anche il dimenticare. Quest’ultimo ci consente di mettere da parte eventi del passato che non sono più importanti per ciò che siamo nel presente e come esseri umani ci dà la possibilità di cambiare ed evolvere.

In maniera naturale riusciamo a trascurare alcuni eventi del passato perché essi non sono più importanti per il nostro presente, per quello che siamo noi oggi. Con la memoria digitale invece abbiamo allontanato questa importante capacità di dimenticare: quando prendiamo decisioni siamo sovraccaricati dei fatti del passato così come dalle informazioni del presente. Dimenticare era facile in quanto prassi biologica costruita nei nostri cervelli. Nell’era digitale invece abbiamo a disposizione strumenti digitali che catturano e rendono accessibile per sempre l’informazione, fra l’altro ad un costo molto basso. In sostanza, sebbene gli esseri umani dimentichino ancora, anche se con maggior fatica, gli strumenti digitali che usiamo quotidianamente non dimenticano anzi ci ripropongono tutto.

Da queste riflessioni si articola il dibattito attorno al diritto all’oblio quanto quello  in merito alla nostra stessa possibilità di crescere e cambiare in maniera nuova rispetto al passato. Tema tra l’altro già anni orsono trattato da Longo, nel Nuovo Golem (1998): l’autore aveva evidenziato il danno che le nuove tecnologie avrebbero causato al concetto di tempo storico, rendendo il lontano, nel tempo, cognitivamente vicino.

Dibattito rialimentato una decina di anni dopo dal volume “Delete – The virtue of forgetting in the digital age” (2009). L’autore, Viktor Mayer Schönberger, riporta il caso di Stacy Snyder, una giovane aspirante insegnante: la ragazza aveva immesso una fotografia che la ritraeva con un cappello da pirata mentre beveva da un bicchiere di plastica, sulla sua pagina di MySpace. La foto era stata notata dall’amministrazione della scuola, nella quale l’aspirante insegnante svolgeva il tirocinio. La candidata successivamente rimosse la foto, la quale tuttavia si era diffusa nella rete, ed era stata indicizzata dai motori di ricerca. A causa di questa foto, non venne assunta dalla scuola.

Un esempio di come lo stesso paradigma di realtà virtuale era inadeguato, soppiantato da quello di realtà aumentata.

La conseguenza pertanto di questo eterno presente è che ci troviamo impantanati in una marea di informazioni relative al nostro passato che possono seriamente vincolare il nostro status presente, impedendoci di agire in piena libertà nei confronti di un futuro il cui disegno è pesantemente condizionato dalle tracce che abbiamo lasciato alle nostre spalle.

L’oblio non ci tutela solo da dossieraggi, macchine del fango, ma anche da noi stessi e tutela la nostra persona, la sua crescita ed il suo benessere nel tempo.

Il tempo gioca un ruolo importante in quegli eventi in relazione ai quali un periodo significativo sia ormai trascorso e manchino elementi di contestualizzazione.

La persona è il risultato di più identità: le identità rappresentano un ponte tra la persona e la situazione concreta, storicamente e culturalmente collocata nella quale il soggetto agisce, ovvero il contesto.

L’impreparazione alla gestione del potere dei nuovi mezzi di comunicazione di massa – in particolare di decontestualizzazione e ricontestualizzazione – produssero, all’epoca della diffusione dell’informazione televisiva, impeachment nello svelare comportamenti in contesi privati di presidenti, scurrili e irrispettosi verso gli elettori (Meyrowitz) e movimenti interni ad un Paese per il ritiro da conflitti in conseguenza alla diffusione pubblica di filmati sul comportamento dei loro militari, come nel caso del Vietnam.

Lo stesso possiamo dire della rete web e dei moderni social network: catturano frammenti della nostra identità, sul nostro percorso di vita, anche su nostra iniziativa, esponendoli al rischio poi di diventare come i residui di vettori nello spazio, possono incrociare l’orbita delle nostre esistenze ed impattare contro noi stessi.

Per la trasversalità di questo tracciato digitale, il diritto all’oblio è stato definito in giurisprudenza come una categoria a fattispecie plurima perché esso « (…) si estende a coprire ogni informazione o dato che ci riguarda, compresi quelli da noi stessi immessi in rete per le più diverse finalità» (Pizzetti p. 42).

Una volta che il diritto ha stabilito le regole ed i principi, compito della tecnologia è attuarli.

Le tecnologie in questo senso utilizzabili sono molteplici. Fra le soluzioni ci potrebbe essere la data di scadenza per le informazioni: liberi di stabilire e cambiare la data di scadenza a nostro piacimento, ma una volta che essa viene raggiunta, l’informazione viene cancellata dai nostri hard disk e storage device in maniera definitiva. Un’altra possibilità è avere qualcosa come il “digital rusting” (‘arruginimento’ digitale). Con questo termine si intendono quei meccanismi che rendono un po’ più impegnativo conservare le informazioni più vecchie che sono meno importanti oggi.

La volontà di tutela delle informazioni e di possibilità di dimenticare risulta fondamentale anche per ricordare come l’informazione sia potere. Quelli che hanno informazioni su di noi hanno anche potere. Paradigmatico, in tal senso, è quello che il Divo, la ricostruzione filmica di Andreotti (Sorrentino, 2008), pronuncia nell’incontro con Eugenio Scalfari: «Guerre puniche a parte, mi hanno accusato di tutto quello che è successo in Italia […] ma non ho mai sporto querela, per un semplice motivo, possiedo il senso dell’umorismo. Un’altra cosa possiedo: un grande archivio, visto che non ho molta fantasia, e ogni volta che parlo di questo archivio chi deve tacere, come d’incanto, inizia a tacere».

Oggi molte istituzioni e organizzazioni possono immagazzinare le informazioni che hanno su di noi per un tempo illimitato, combinandole e sapendo ciò che noi stessi abbiamo dimenticato. Diventa perciò ancora più urgente e necessario esercitare il nostro personale diritto all’oblio.

Diritto personale, perché la storia soggettiva della persona, legata sua volta al suo stesso benessere, è sempre una ricostruzione, un’interpretazione: esiste un riverbero del passato, ogni volta che lo si ripensa, viene modificato, adattato a quello che siamo, soprattutto che vorremmo essere e che crediamo di essere.

Tutti noi abbiamo detto o fatto cose nelle quali non ci riconosciamo, alle quali non vorremo più essere ricondotti. E qui non si tratta di responsabilità o meno delle nostre azioni: siamo veramente diversi, come persona e come identità, non solo perché non siamo più in un dato contesto passato, ma perché ogni informazione ed esperienza ci ha effettivamente reso diversi, potenzialmente, ci ha fatto crescere come persona.

Rimanere invece ancorati a – o ancora peggio ricattabili da – un passato non permette nessun percorso verso un’armonizzazione delle diverse identità che rappresentano comunque un’evoluzione positiva della persona ma invece possono esporre la personalità ad una sua frammentazione: esempi riusciti sono quei film nei quali i personaggi, nonostante un passato in qualche modo legato alla violenza, riescono a costruirsi una vita serena e soprattutto a fare del bene, anche per la società, vengono – quasi sempre attraverso l’antagonista – ricondotti in maniera drammatica ad una loro identità non conciliabile con la persona che sono diventati.

Se vi fossero state immagini ed informazioni indelebili sul loro passato condivisibili da tutti mai sarebbero potute cambiare, migliorare, essere utili alla società come persone.

Da una ricerca (“Donne, droghe e internet”) è emersa che l’appartenenza ad una comunità online, costruita come un social che univa le persone in feste offline che di fatto utilizzavano il setting di quelli che tradizionalmente erano riti di passaggio (danze, droghe e trance) verso un’età adulta, congelava le persone in un’eterna adolescenza.

Di fatto in quella piattaforma, social, i giovani e meno giovani, riconoscibilissimi, si esibivano in foto con pasticche blu – verosimilmente ecstasy –  tra i denti o nelle bocche aperte, e dal loro profilo si poteva risalire alla loro città di provenienza.

Anche nei casi di cyberbullismo, la violenza psicologica viene acuita dalla condivisione di quella fisica nei social, un’umiliazione insostenibile, che, in alcuni casi, ha contribuito al suicidio della vittima.

Infine, anche se culturalmente per le nuove generazioni la persona è molto più labile (l’“io minimo” di Lash) e le identità sono molto intercambiabili (“identità gruccia”, secondo Bauman), per cui vi può essere superficialità e indifferenza (un atteggiamento che Simmel definirebbe Blasè) verso plurime e anche goliardiche rappresentazioni di questa online, chi decide e seleziona il futuro lavorativo dei giovani, chi scrive e legge i giornali, li giudica agli esami, è loro genitore, appartiene ad una cultura molto diversa, anche per il concetto di reputazione e immagine e danno maggior peso alle informazioni che gli vengono riportate, anche dalla rete.

All’interno di questo contesto culturale, la Corte Europa ha recentemente riconosciuto di dimenticare: ora la scelta è di farsi vincere dalla nostalgia del passato o dal pudore della reputazione; Google, Microsoft e Bing hanno messo online il modulo per l’oblio delle informazioni personali ed esistono già da tempo agenzie che offrono questo tipo di assistenza, sia sotto il profilo giuridico e tecnologico.

Sceglieremo di naufragare nell’infinito ricordo di Leopardi o avventurosamente svanire come Montale?

FONTE: Agenda Digitale (www.agendadigitale.eu)

AUTORI: Valentina Bernardis e Nicola Strizzolo

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