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Ubiquitous Commons: come comprendere i diritti sui nostri dati digitali

lentepubblica.it • 29 Settembre 2015

Ubiquitous CommonsL’irruzione della connettività nelle nostre vite ridisegna l’assetto sociale: dal modo in cui creiamo e manteniamo le relazioni, al modo in cui acquistiamo e consumiamo beni e servizi fino ai processi di produzione di cultura e di valore sociale su più ampia scala. Al centro, di quella che la stessa Commissione Europea con l’omonima Iniziativa ha ribattezzato l’Onlife, ci sono i dati che tutti noi, in continuazione e in maniera più meno consapevole, produciamo, rielaboriamo e reimmettiamo nell’ecosistema in cui siamo immersi.

 

Un tale ecosistema ha generato fin qui un rapporto squilibratotra chi produce dati e chi ne estrae valore di varia natura. Per riequilibrare il rapporto, generando non solo nuove garanzie ma anche inimmaginabili prospettive sociali e di mercato, il gruppo di ricerca internazionale Ubiquitous Commons – UC, capitanato da due italiani dell’ISIA di Firenze, sta mettendo a punto un sistema tecnico – legale.

 

Il lavoro avanza spedito, a sentire Salvatore Iaconesi, ingegnere robotico e Principal Investigator UC che interverrà a SCE 2015 – Citizen Data Festival a Bologna il 16 ottobre.

 

“Ubiquitous Commons – ci spiega Salvatore – è a tutti gli effetti un protocollo, ovvero un toolkit legale e tecnologico che permette alle persone di esprimersi su come vogliono che i dati siano utilizzati, secondo delle identità – individuali, collettive, anonime, temporanee o nomadiche – e degli scopi”. Per intenderci, parliamo di tutti i dati generati da dispositivi elettronici e ambienti virtuali che usiamo e frequentiamo: dal frigorifero ai social network, dalla carte di credito alla tecnologia c.d. wearable.

 

La scelta di lavorare su Ubiquitous Commons nasce dalla costatazione che se da un lato è ormai riconosciuta la centralità dei dati nel nostro vivere e conoscere quotidiano, dall’altro nessun discorso pubblico viene elaborato su come le persone possano utilizzare questi dati e deciderne accesso, distribuzione e usi. Da qui prende forma ilprotocollo UC che, sul modello del Creative Commons, rappresenta una sorta di “metadato” utile a descrivere l’attribuzione e le possibilità di uso dei dati e che, sostanzialmente, facilita la vita dell’intera collettività

 

Secondo Salvatore Iaconesi ci confrontiamo con un’evidenza: esiste un enorme squilibrio tra il potere, praticamente nullo, che in questo campo detengono i cittadini – utenti e quello, spropositato, degli operatori economici. “Tra i tanti modi che ci sono di agire su questo disequilibrio – spiega – noi abbiamo scelto una modalità relazionale, cioè che tenga conto che le persone hanno desideri, punti di vista, valori e che, sulla base di questi, permetta loro di esprimersi su quali usi di questi o quei dati siano graditi e a quali condizioni. Non si tratta tanto di mettere dei paletti quanto di riassestare l’equilibrio di un’intera collettività, in cui rientrano i cittadini, le comunità locali, le amministrazioni, le aziende”.

 

Nonostante la sua giovane vita – il progetto è stato avviato solo quattro mesi fa –Ubiquitous Commons ha già prodotto e reso disponibile su git-hub un plug-in che, una volta installato sui social network come su gmail, rende crittografata ogni informazione inserita dall’utente, dando a quest’ultimo la possibilità di scegliere con chi condividerla. “Questo – precisa Salvatore – significa che, per accedere ai contenuti immessi, bisogna essere autorizzati tramite l’infrastruttura peer to peer e che, quindi, lo stesso Facebook potrebbe non avere accesso ai dati pubblicati dall’utente sulla sua piattaforma”.

 

Il gruppo, di natura multidisciplinare e che annovera partner che vanno da istituti quali la Open Knowledge Foundation e il Google Cultural Institute (Parigi) alle Università italiane di Roma (La Sapienza ) e Milano (La Statale) e a quelle di Edimburgo e San Paolo, passando da Yale e Seoul, sta lavorando ora al secondo prototipo che riguarda le c.d. wearables, ovvero le tecnologie indossabili. “Ci siamo concentrati su due oggetti: i dispositivi per i runner e i dispositivi biomedici.  Abbiamo realizzato due prototipi di questi oggetti, collegandoli a Ubiquitous Commons. Questo, in caso di uso pratico, significa che il “portatore” genera dati crittografati che può decidere, in maniera selettiva, con chi condividere e a quali condizioni. Ad esempio, può decidere di condividere gratuitamente con i ricercatori i dati che produce con il proprio corpo”.

 

Già da queste prime sperimentazioni appare evidente come l’adozione su larga scala di Ubiquitous Commons possa aprire nuovi mercati. “Basti pensare – suggerisce ancora Salvatore – ai dati sugli usi e i consumi domestici e condominiali”. Se questi dati venissero trasformati in Ubiquitous Commons, l’accesso potrebbe essere consentito a categorie diverse, a diverse condizioni. Questo significherebbe che lo stesso condominio potrebbe trasformarsi in un generatore non solo di consumi ma anche di risorse ed esternalità positive e, conseguentemente, la figura dell’amministratore di condominio muterebbe radicalmente.

 

“Parallelamente – continua Salvatore – UC apre interessantissimi scenari per gli ambienti rurali. Cosa succederebbe se la campagna iniziasse a usare UC sulle produzioni, sui semi, sui trattori, sul personale? Per fare degli esempi: gli agricoltori potrebbero iniziare a stabilire sistemi mutualistici invece che competitivi, colossi come Monsanto potrebbero capire che le informazioni si pagano”.  In questo settore, assolutamente da monitorare la sperimentazione in atto, con la collaborazione di Rural Hub (SA), sull’utilizzo di UC in ambito rurale.

 

La prospettiva è talmente “pervasiva” che non possono restare fuori, come emerge abbastanza chiaramente, i produttori di “hardware”, dagli elettrodomestici ai trattori ai sensori medici. Se, infatti, un plug-in è direttamente scaricabile on line, un frigorifero può essere collegato a Ubiquitous Commons solo se si predispone il suo software in un determinato modo.

 

“Funzionerebbe un po’ come per il bollino del biologico: si tratta di aderire al Protocollo”,conclude Salvatore. E rilancia: “Questo è il motivo per cui stiamo parlando con la Commissione europea: cosa succederebbe se UC diventasse il bollino dei dati made in EU?

Fonte: Agenda Digitale (www.agendadigitale.eu) - articolo di Chiara Buongiovanni
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