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Impugnazione scioglimento consiglio comunale per infiltrazione mafiosa, chiarimenti dal CdS

Fabiano Santo • 19 Aprile 2021

https://www.lentepubblica.it/wp-content/uploads/2021/04/impugnazione-scioglimento-consiglio-comunale-infiltrazione-mafiosa.jpgIl Consiglio di Stato sull’interesse all’impugnazione dello scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione mafiosa.


Impugnazione scioglimento consiglio comunale per infiltrazione mafiosa

Permane l’interesse al ricorso proposto avverso lo scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione mafiosa anche se l’eventuale annullamento non potrebbe sortire l’effetto del ripristino della consiliatura, essendo questa destinata a cessare poco dopo l’adozione della misura dissolutoria, residuando un interesse morale all’acceleramento dell’inesistenza di forme di pressione e di vicinanza della compagine governativa alla malavita organizzata (1).

In sede di impugnazione del provvedimento di scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione mafiosa il sindacato del giudice amministrativo sulla ricostruzione dei fatti e sulle implicazioni desunte dagli stessi non può spingersi oltre il riscontro della correttezza logica e del non travisamento dei fatti, svolgendosi quindi come scrutinio finalizzato a verificare eventuali vizi di eccesso di potere quanto all’adeguatezza dell’istruttoria, alla ragionevolezza del momento valutativo nonché alla congruità e proporzionalità rispetto al fine perseguito  (2).

Lo scioglimento di un consiglio comunale per infiltrazione mafiosa non deve essere preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento (3).

Note

(1) La Sezione ha dato atto di una giurisprudenza non univoca in relazione alla permanenza dell’interesse all’annullamento giurisdizionale del provvedimento di scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa ove comuynque non sarebbe più possibile il ripristino della consiliatura

Ad avviso della Sezione l’ammissibilità del ricorso va riconosciuta alla stregua del più recente e favorevole indirizzo propenso a conferire rilevanza all’interesse, quanto meno morale, a che gli amministratori del disciolto Consiglio, a tutela della loro stessa immagine e reputazione, facciano dichiarare l’erroneità delle affermazioni contenute nel provvedimento impugnato e, quindi, l’inesistenza di forme di pressione e di vicinanza della compagine governativa alla malavita organizzata (Cons. St., sez. III, n. 4074 del 2020; id. n. 5548 del 2020).

Né varrebbe obiettare che la lesione dell’immagine del singolo ex amministratore discende semmai (e a tutto voler concedere) essenzialmente dai “fatti” posti a fondamento della misura dissolutoria, l’accertamento della cui veridicità è oggetto di verifica solo incidentale da parte del giudice amministrativo. Non si può negare, infatti, che quei fatti assurgono a significanza proprio per il tramite del giudizio valutativo altamente discrezionale che ne rende l’amministrazione, sicché, se la portata del loro disvalore è compendiata ed enucleata essenzialmente nell’atto ex art. 143, è certamente apprezzabile l’interesse demolitorio volto a contrastare l’interpretazione che in detto atto risulta trasposta e cristallizzata.

 

(2) Ha preliminarmente ricordato la Sezione le indicazioni di principio dettate dalla Corte costituzionale 19 marzo 1993, n. 103, secondo le quali il potere di scioglimento in questione deve essere esercitato in presenza di situazioni di fatto che compromettono la libera determinazione degli organi elettivi, suffragate da risultanze obiettive e con il supporto di adeguata motivazione; tuttavia, la presenza di risultanze obiettive esplicitate nella motivazione, anche ob relationem, non deve coincidere con la rilevanza penale dei fatti, né deve essere influenzata dall’esito di eventuali procedimenti giudiziari che abbiano lambito o investito la medesima vicenda storica.

Recisa la connessione con la materia processual-penalistica, va al contempo rimarcata la natura di provvedimento non sanzionatorio ma preventivo della misura ex art. 143, t.u. 18 agosto 2000, n. 267, in quanto posto a salvaguardia dell’amministrazione pubblica di fronte alla pressione e all’influenza della criminalità organizzata. Alla stregua di tale ratio trovano giustificazione sia il margine, particolarmente ampio, della potestà di apprezzamento di cui fruisce l’Amministrazione; sia la possibilità di dare peso anche a situazioni non traducibili in addebiti personali, ma tali da rendere plausibile, nella concreta realtà contingente e in base ai dati dell’esperienza, l’ipotesi di una possibile soggezione degli amministratori alla criminalità organizzata.

Rilevano, perciò, anche “situazioni che non rivelino né lascino presumere l’intenzione degli amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata”, anche perché, diversamente, ove questa intenzione emergesse, sussisterebbero i presupposti per l’avvio dell’azione penale o, almeno, per l’applicazione delle misure di prevenzione a carico degli amministratori, mentre la scelta del legislatore è stata quella di non subordinare lo scioglimento del consiglio comunale né a tali circostanze, né al compimento di specifiche illegittimità (Cons. Stato, sez. V, n. 3784 del 2005; id., sez. IV, n. 1156 del 2004).

Tutto quanto sopra chiarito spiega anche perché, nell’ipotesi di scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose – finalizzato, dunque, a contrastare una patologia del sistema democratico – l’Amministrazione goda di ampia discrezionalità, non richiedendosi né che la commissione di reati da parte degli amministratori, né che i collegamenti tra l’amministrazione e le organizzazioni criminali risultino da prove inconfutabili, ma solo che sussistano sufficienti elementi univoci e coerenti volti a far ritenere un relazione dinamica tra l’Amministrazione e i gruppi criminali.

Sulla base della stessa ratio si comprende perché il sindacato del giudice amministrativo sulla ricostruzione dei fatti e sulle implicazioni desunte dagli stessi non possa spingersi oltre il riscontro della correttezza logica e del non travisamento dei fatti (Cons. Stato, sez. III, n. 4845 del 2014), svolgendosi quindi come scrutinio finalizzato a verificare eventuali vizi di eccesso di potere quanto all’adeguatezza dell’istruttoria, alla ragionevolezza del momento valutativo nonché alla congruità e proporzionalità rispetto al fine perseguito (Cons. Stato, sez. III, n. 96 del 2018); del pari si comprende come in sede giurisdizionale non sia affatto necessario un puntiglioso e cavilloso accertamento di ogni singolo episodio, più o meno in sé rivelatore della volontà degli amministratori di assecondare gli interessi della criminalità organizzata, né, come detto, delle responsabilità personali, anche penali, di questi ultimi (Cons. Stato, sez. III, n. 1266 del 2012).

A quanto sin qui posto, deve infine aggiungersi che le evidenziate puntualizzazioni concordano con l’assenza di sovrapposizioni fra la vertenza avente ad oggetto la legittimità del provvedimento ex art. 143, comma 1, d.lgs. n. 267 del 2000 e quella avente ad oggetto la declaratoria d’incandidabilità degli ex amministratori considerati responsabili degli accadimenti posti a fondamento della misura dissolutoria.

Quest’ultima investe un frammento della prima, riguardando solo ed esclusivamente ciò che costituisce oggetto di addebito all’ex amministratore che, con la propria condotta, ha provocato ovvero contribuito a provocare il verificarsi delle situazioni di cui al citato comma 1 dell’art. 143. Per tale motivo, essa riguarda in via diretta e immediata solo parte del sostrato fattuale della misura dissolutoria, del quale il giudice civile può (e deve) accertare la veridicità e, circostanza ancor più importante, può autonomamente apprezzare la rilevanza e significatività soprattutto al fine di stabilire la sussistenza o meno di responsabilità dovute anche a mera “culpa in vigilando”.

Neppure può esigersi che il giudizio di permeabilità dell’ente al condizionamento esterno passi attraverso il bilanciamento dei “meriti” e dei “demeriti” ascrivibile alla gestione pubblica, in quanto l’eventuale allegazione di “.. provvedimenti utilmente adottati dall’amministrazione comunale […] non dimostra che l’inerzia di questa in altri ambiti o settori della vita pubblica non abbia potuto favorire, consapevolmente, il perdurare o l’insorgere di un condizionamento o di un collegamento mafioso”. D’altra parte, “.. il condizionamento o il collegamento mafioso dell’ente non necessariamente implicano una paralisi o una regressione dell’intera attività di questo, in ogni suo settore, ma ben possono convivere e anzi convivono con l’adozione di provvedimenti non di rado, e almeno in apparenza, anche utili per l’intera collettività, secondo una logica compromissoria, “distributiva”, “popolare”, frutto di una collusione tra politica e mafia” (Cons. Stato, sez. III, n. 4727 del 2018).

Ha ricordato la Sezione che lo scioglimento del consiglio comunale pe infiltrazione mafiosa si può fondare su un complesso di elementi indiziari da valutare in un’ottica inferenziale complessiva.

Questa valenza sintomatica si apprezza, viepiù, in virtù della più generale considerazione che, oltre all’ipotesi del “collegamento” di politici e dipendenti locali con la criminalità organizzata, l’art. 143, d.lgs n. 267 del 2000 prevede anche il parametro normativo del “condizionamento“, potendo entrambe le situazioni – collegamento e/o condizionamento – realizzarsi nella vita amministrativa degli enti locali influenzati dalle cosche.

La ratio della legge è quella di intervenire per interrompere il rapporto di connivenza o di convenienza degli amministratori locali con sodalizi criminali di stampo mafioso che può rintracciarsi sia nella cosiddetta contiguità compiacente in presenza di clientelismo e di corruzione, come nel caso di specie; sia nella cosiddetta contiguità soggiacente esercitata con pressioni, minacce e atti intimidatori che influenzano in maniera determinante e diretta la vita dell’ente.

Secondo pacifica giurisprudenza, inoltre, lo scioglimento si giustifica tanto nelle ipotesi in cui emergano sintomi di condizionamento riguardanti le scelte strettamente di governo, quanto nei casi in cui i sintomi di condizionamento riguardino le attività di gestione, le quali sostanzialmente finiscono per essere quelle di maggior interesse per le consorterie criminali, visto che attraverso di esse si possono più facilmente e rapidamente ottenere benefici e vantaggi. Al contempo, l’adozione della misura dissolutoria di cui all’art.143, comma 1, d.lgs. n. 267 del 2000 è legittima come nel caso di diretto coinvolgimento dell’apparato politico-amministrativo, così anche nel caso di “inadeguatezza” dello stesso nel regolare compimento dei poteri di vigilanza e nella regolare gestione burocratica dell’amministrazione pubblica.

(3) Ha affermato la Sezione che l’esclusione della garanzia partecipativa nelle forme dettate dall’art. 7, l. 7 agosto 1990, n. 241 è legata alla stessa natura dell’atto di scioglimento che dà ragione dell’esistenza, oltre che della gravità, dell’urgenza del provvedere, cui non può non correlarsi l’affievolimento dell’esigenza di salvaguardare in capo ai destinatari, nell’avvio dell’iter del procedimento di scioglimento, le garanzie partecipative e del contraddittorio assicurate dalla comunicazione di avvio del procedimento.

Questa impostazione trova autorevole avallo, sotto il profilo della sua compatibilità con l’art. 97 Cost., nella pronuncia della Corte costituzionale n. 103 del 1993, stando alla quale la mancanza della previsione della preventiva contestazione degli addebiti (e della possibilità, di conseguenza, di dedurre in ordine ad essi) nel corso del procedimento amministrativo relativo alle ipotesi di scioglimento appare giustificata dalla loro peculiarità, essendo quelle misure caratterizzate dal fatto di costituire la reazione dell’ordinamento alle ipotesi di attentato all’ordine ed alla sicurezza pubblica. Una evenienza dunque che esige interventi rapidi e decisi, il che esclude che possa ravvisarsi l’asserito contrasto con l’art. 97 Cost., dato che la disciplina del procedimento amministrativo è rimessa alla discrezionalità del legislatore nei limiti della ragionevolezza e del rispetto degli altri principi costituzionali, fra i quali, secondo la giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 23 del 1978; ord. n. 503 del 1987), non è compreso quello del ‘giusto procedimento’ amministrativo, dato che la tutela delle situazioni soggettive è comunque assicurata in sede giurisdizionale dagli artt. 24 e 113 Cost.. ​​​​​​​

 

(integralmente tratto dal sito www.giustizia amministrativa.it)

Fonte: articolo di Santo Fabiano [tratto da lasettimanagiuridica.it]
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