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Il lavoro non fa più identità, è crisi per la rappresentanza

lentepubblica.it • 12 Giugno 2014
«Lavoro ibrido» per il 51% degli occupati di 15-24 anni. E sono quasi 9 milioni gli italiani in transizione da una condizione professionale a un’altra. Tutti senza rappresentanza

Nuove identità fluide, nuovi spazi di aggregazione. Oggi in Italia ci sono complessivamente 8.963.000 persone che si trovano in una fase di transizione da una condizione professionale a un’altra. Si tratta di 1.448.000 italiani che tentano di entrare nel mercato del lavoro, cercando attivamente un lavoro per la prima volta nella vita (815.000) o dopo un lungo periodo di inattività (633.000). 6.379.000 persone vivono una situazione di transizione interna al mercato del lavoro: sono 1.664.000 ex occupati che hanno perso un lavoro e ne stanno cercando un altro, 3.383.000 lavoratori impiegati in modo instabile o precario, 1 milione di occupati che stanno cercando di cambiare lavoro, 443.000 assenti dal lavoro per motivi personali o di salute, 368.000 lavoratori che si trovano in una fase di passaggio particolarmente rischiosa, perché cassintegrati o sottoccupati a causa della crisi. Infine, ci sono 1.381.000 lavoratori over 60 anni colpiti dalle recenti riforme che hanno fatto slittare in avanti i tempi di maturazione dei requisiti previdenziali, allungando la fase di uscita dal lavoro. Considerando l’insieme delle posizioni mobili, sono 66,6 ogni 100 posizioni lavorative fisse: un dato eclatante, se si considera che nel 2008 queste ammontavano a 47,6 e che nell’ultimo quinquennio l’universo complessivo dei lavoratori in transizione ha registrato un incremento del 18,8%.

Lo svuotamento della dimensione identitaria legata al lavoro e alle ideologie. All’origine della crisi di identità e appartenenze dei nostri giorni c’è lo sgretolamento di quelli che in passato erano stati i fattori aggreganti: lavoro e ideologie, che oggi appaiono sempre meno capaci di fare tessuto. Una indagine del Censis dimostra che solo il 15,2% degli italiani condivide ancora una qualche forma di appartenenza di classe, dichiarando che le persone a cui si sentono più vicini sono quelle che svolgono lo stesso lavoro (7,9%) o che hanno lo stesso reddito (7,3%). Ancora più debole è la forza delle ideologie: solo il 5,2% degli italiani si sente vicino a persone che hanno le stesse idee politiche (2,8%) o la stessa fede religiosa (2,4%). I fattori che invece innescano meccanismi di appartenenza oggi riguardano la dimensione individuale delle persone: al primo posto (26,6%) c’è la condivisione dello stesso stile di vita. Interessi culturali, vacanze, sport riescono a sviluppare maggiore senso di appartenenza.

La crescita tra i giovani del «lavoro ibrido» senza rappresentanza. In una terra di mezzo tra il lavoro dipendente tradizionale e quello autonomo di tipo imprenditoriale e professionale, si è sviluppata un’area del «lavoro ibrido» che ha impattato negativamente sul sistema tradizionale della rappresentanza, articolato in associazioni datoriali, da una parte, e sindacali, dall’altra. Quest’area conta 3,4 milioni di occupati (il 15,1% del totale) tra lavoratori temporanei, intermittenti, collaboratori, partite Iva, prestatori d’opera occasionale. Soprattutto per i giovani è sempre più ardua l’autocollocazione rispetto alle categorie del passato. Tra gli occupati di 15-24 anni la quota di «ibridi» è maggioritaria, pari al 50,7%. Tra loro è forte la paura di perdere l’impiego: circa 1 milione di giovani con meno di 35 anni (il 18,8%) teme di perdere il posto di lavoro nei prossimi mesi e solo l’11,1% ritiene che poi sarà relativamente facile ritrovarne uno simile.

Il deterioramento del lavoro. I percorsi di lavoro sono diventati sempre più frammentati. Si moltiplicano i tempi di non lavoro nell’ambito della vita delle persone: il 14% degli occupati si è trovato negli ultimi tre anni a interrompere il proprio percorso professionale, incorrendo in uscite temporanee o ripetute dall’attività lavorativa. Tale rischio è maggiore nelle fasce generazionali più giovani, tra i 16 e i 34 anni, dove il 20,5% degli occupati si è trovato a vivere periodi di non lavoro, e anche nel Mezzogiorno, dove la percentuale arriva al 21,5%. Assistiamo anche a un progressivo sfilacciamento dei legami di appartenenza aziendale: sono 2.229.000 gli occupati dipendenti (il 18,9% del totale) che hanno con le aziende presso cui lavorano un rapporto a termine, e tra i giovani con meno di 35 anni la percentuale arriva al 27,7%. Anche la riduzione dell’impegno lavorativo, e conseguentemente dell’investimento professionale, accomuna sempre più occupati: tra il 2008 e il 2013 il numero dei lavoratori part time è aumentato del 19,9%, arrivando a quota 4.013.000 (il 17,9% del totale). Pesa il deterioramento delle relazioni nei luoghi di lavoro: gli italiani sono il popolo europeo tra cui si registra il più basso livello di collaborazione tra colleghi (il 51% contro una media europea del 73%). E aumenta la disaffezione verso un lavoro divenuto troppo spesso fonte di problemi: il 30% dei lavoratori italiani (contro il 27% della media europea) dichiara di avere accusato nel corso dell’anno stress, depressione e ansia legati alla propria condizione lavorativa.

Il giudizio sui soggetti di rappresentanza. Negli ultimi anni la voglia degli italiani di impegnarsi nella tutela di interessi collettivi è diminuita. Si riduce la quota di cittadini che svolgono attività gratuite per sindacati o strutture di rappresentanza: dall’1,3% del 2003 all’1,1% del 2013 (571mila persone). Le associazioni impegnate nelle grandi battaglie per l’ambiente, la pace, i diritti civili perdono attivisti: dal 2,3% all’1,5% degli italiani (778mila persone). Malgrado la sfiducia generalizzata verso le classi dirigenti del Paese, rappresentanze sociali comprese, la maggioranza degli italiani (il 59,7%) continua però a considerare gli organismi intermedi come un elemento centrale nel funzionamento democratico del sistema: il 42,5% li ritiene importanti in quanto rappresentanti di interessi e valori comuni a gruppi di cittadini e il 17,2% ritiene un valore la loro presenza come collante aggregativo in una società sempre più individualista. Il 40,3% degli italiani invece ha un giudizio negativo: il 12,7% considera il loro ruolo del tutto inutile perché gli interessi devono esprimersi attraverso la politica e le istituzioni, il 16,9% pensa che siano superati perché superate sono le logiche aggregative degli interessi secondo le appartenenze professionali, e il 10,7% punta il dito sull’approccio corporativo dei soggetti di rappresentanza e sulla loro tendenza a chiudersi nella difesa di interessi settoriali.

«Il vuoto della rappresentanza degli interessi» è l’argomento di cui si è parlato oggi al Censis, a partire da un testo elaborato nell’ambito dell’annuale appuntamento di riflessione di giugno «Un mese di sociale», giunto alla XXVI edizione, dedicato quest’anno al tema «I vuoti che crescono». Sono intervenuti il Presidente del Censis Giuseppe De Rita, il Direttore Generale Giuseppe Roma, la responsabile del settore Lavoro, professionalità, rappresentanze Ester Dini, il Segretario Generale di Confartigianato Cesare Fumagalli e Stefano Micelli, Docente di Economia presso l’Università Ca’ Foscari.

 

FONTE: Censis

 

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